Le criptovalute non vanno confuse coi tradizionali strumenti di pagamento elettronici e con la moneta elettronica. Quest’ultima, in particolare, è un valore monetario, utilizzabile per effettuare operazioni di pagamento, rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente, memorizzato elettronicamente ed espresso in un’unità di conto avente corso legale. Al contrario, le criptovalute non rappresentano in forma digitale le comuni valute aventi corso legale, non sono emesse o garantite da una banca centrale o da un’autorità pubblica e generalmente non sono regolamentate.
La regolamentazione delle criptovalute
La crescente diffusione e operatività delle criptovalute ha destato grande attenzione da parte degli investitori e delle autorità di vigilanza, spingendo gli interpreti ad interrogarsi sul loro possibile inquadramento giuridico.
In particolare, secondo la Banca d’Italia le criptovalute sono rappresentazioni digitali di valore, utilizzate come mezzo di scambio o detenute a scopo d’investimento, che possono essere trasferite, archiviate e negoziate elettronicamente.
L’European Banking Auithority (EBA) e la Banca Centrale Europea sono concordi nel definire le criptovalute come rappresentazioni digitali di valore non emesse da banche centrali o da autorità pubbliche, che possono essere accettate da persone fisiche o giuridiche come mezzo di pagamento.
Inoltre, la Banca Centrale Europea ha individuato tre tipi di criptovalute: 1) la moneta virtuale chiusa, non convertibile in moneta legale, e dunque spendibile solo all’interno di un circuito virtuale; 2) la moneta virtuale unidirezionale, non convertibile in moneta legale, spendibile per il pagamento di beni e servizi online e, in alcuni casi, di beni e servizi reali; 3) la moneta virtuale bidirezionale che può essere acquistata e riconvertita in moneta legale senza alcun vincolo.
La Securities and Exchange Commission (SEC) ha qualificato le criptovalute come rappresentazione digitale di valore con funzione di scambio; unità di conto o riserva di valore che può, in determinati casi, qualificarsi come strumento finanziario non vendibile legalmente senza registrazione presso la SEC.
La Federal Financial Supervisory Authority (BaFin) identifica le criptovalute sostanzialmente come strumenti finanziari.
La definizione offerta dalla Banca d’Italia è stata, in qualche modo, recepita dal legislatore nell’ambito della disciplina antiriciclaggio nella quale la valuta virtuale è intesa come rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente.
Della questione si è occupata anche la dottrina che ha prospettato diverse soluzioni, qualificando le criptovalute: 1) come moneta vera e propria; 2) come bene giuridico ex art. 810 c.c.; 3) come strumento finanziario; 4) come mezzo di pagamento; 5) come documento informatico.
La recente posizione della giurisprudenza di merito
All’interno di questo acceso dibattito si colloca il recente decreto pronunciato dalla Corte di Appello di Brescia – a conclusione di un procedimento di reclamo avverso altrettanto provvedimento pronunciato dal Tribunale della medesima città – che ha negato l’idoneità delle criptovalute a costituire oggetto di conferimento nel capitale sociale di S.r.l, stante l’impossibilità di attribuire loro una determinazione in valore effettiva e certa.
In particolare, la Corte di Appello ha equiparato le criptovalute alla moneta e quindi le ha ricomprese nella categoria dei conferimenti in denaro, stabilendo che, in assenza di un sistema di scambio idoneo a determinarne l’effettivo valore ad una data certa, non è possibile assegnare alle criptovalute un controvalore certo in euro, con la conseguenza che tali monete virtuali non possono costituire elemento attivo idoneo al conferimento nel capitale di una S.r.l.
Ad analoghe conclusioni, ma con differente motivazione, era pervenuto il Tribunale di Brescia il quale aveva qualificato le criptovalute come conferimento in natura, ritenendo che tale bene non soddisfi i requisiti di cui all’art. 2464, comma 2, c.c., indispensabili per poter essere oggetto di conferimento nel capitale sociale di una S.r.l., e precisamente: 1) l’idoneità ad essere oggetto di valutazione; 2) l’esistenza di un mercato del bene; 3) l’assoggettabilità ad esecuzione forzata.
Il Tribunale ha dunque qualificato il conferimento mediante criptovalute come conferimento in natura, mentre la Corte di Appello l’ha ricompreso nella categoria dei conferimenti in denaro, equiparando le criptovalute alla moneta reale.
La differenza è sostanziale poiché la categoria dei conferimenti in danaro ricomprende tutti quei beni (conferibili) rappresentati da strumenti monetari che, per loro natura, hanno l’attitudine ad esprimere il valore di altri beni in ragione del proprio valore nominale, e quindi non si prestano ad essere a loro volta valutati (ad esempio la moneta avente corso legale). Al contrario, rientrano nella categoria dei conferimenti in natura tutti quei beni (conferibili), diversi dagli strumenti monetari, che hanno un valore reale determinabile all’esito di una apposita valutazione.
Questa distinzione pone molteplici interrogativi sulla soluzione proposta dalla Corte di Appello di Brescia in quanto essa, da una parte, inquadra le criptovalute nella categorie delle monete e, dall’altra, ne esclude tout court la conferibilità in società per assenza di un sistema di scambio idoneo a determinarne l’effettivo valore ad una data certa. La sensazione è che il Collegio non abbia voluto addentrarsi in analisi troppo dettagliate della materia, anche alla luce del fatto che non vi è una normativa chiara e una definita qualificazione giuridica delle criptovalute.
Più apprezzabile la tesi del Tribunale di Brescia il quale non esclude in assoluto la conferibilità delle criptovalute nel capitale sociale, bensì ne individua le criticità e i limiti che attengono essenzialmente, da un lato, all’anonimato che circonda il proprietario e l’utilizzatore delle criptovalute e, dall’altro, alla loro impossibilità tecnica ad essere aggredite, il che si traduce nella mancanza di tutela per i terzi.
In particolare, le operazioni in criptovalute, seppur tracciabili in senso informatico, non permettono di identificare il soggetto titolare della moneta e, qualora si riesca a conoscere la sua identità, non è, in ogni caso, consentito ai creditori, per mancanza di strumenti idonei, di aggredire le criptovalute la cui disponibilità è solo in capo al proprietario, unico conoscitore delle password necessarie per accedere al sistema.
I limiti alla conferibilità in S.r.l.
Ebbene, se non vi sono dubbi in ordine alla liceità dell’uso delle criptovalute nell’ambito di uno scambio tra soggetti che quell’uso hanno pattiziamente accettato, criticità emergono laddove la dazione di esse coinvolga anche, e soprattutto, la posizione dei terzi.
È quanto avviene nel caso in cui le criptovalute siano oggetto di conferimento in S.r.l., ove la criticità è insita nella funzione di garanzia per i creditori sociali ricoperta dal capitale sociale il quale, non essendo ripartibile durante la vita della società, indica il valore delle attività patrimoniali che i soci si sono impegnati a non distrarre.
In tale fattispecie, il discrimen tra la conferibilità o meno in S.r.l. delle criptovalute non può prescindere dalla valutazione sull’esistenza o meno di una piena garanzia per i terzi creditori sociali.
Questa valutazione, per le ragioni anzidette (anonimato attorno al titolare delle criptovalute e impossibilità di pignorarle senza la sua cooperazione), difficilmente darebbe esito positivo dato che l’incremento patrimoniale che deriverebbe dal conferimento mediante criptovalute non rivestirebbe quei tratti oggettivi idonei a fondare un apprezzabile affidamento per i terzi.